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Intervista ai designer
Giorgia Zanellato e Daniele Bortotto
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Giorgia Zanellato e Daniele Bortotto | Incalmi 2023
Una costante dei lavori firmati dai designer Giorgia Zanellato e Daniele Bortotto è la ricerca sulle tecniche artigianali tradizionali, testimoni del complesso rapporto tra i luoghi e il passare del tempo. E se tutte le loro realizzazioni – dai prodotti industriali agli oggetti in edizione limitata destinati alle gallerie – prendono il via da questo continuo sovrapporsi di piani, nel progetto di ricerca portato avanti insieme a Incalmi sullo smalto su rame questo concept assume un’inedita concretezza.
Specola Floor and Table Lamp | Incalmi Collection 2023
Quando è nato il vostro studio e perché avete deciso di aprirlo insieme?

Daniele Bortotto: Lo studio è nato dieci anni fa mentre studiavamo in Svizzera all’ECAL [École cantonale d’art de Lausanne, N.d.R.], dove ci siamo conosciuti e siamo diventati amici. Nel 2013 Giorgia è stata invitata al Salone Satellite e mi ha chiesto di partecipare insieme a lei. Dopo tanti anni passati all’estero, abbiamo deciso di creare qualcosa di legato al nostro luogo d’origine, perché volevamo raccontare il nostro territorio attraverso le tecniche, i materiali e i saperi artigianali. Il progetto Acqua Alta è stato l’inizio della nostra ricerca comune.  

Il territorio, le tecniche artigianali, il saper fare sono temi che da allora caratterizzano la vostra ricerca: cosa vi ha spinto in questa direzione?

Giorgia Zanellato: Il lavoro della mano, dell’uomo, ci ha sempre affascinato. Avendo vissuto e lavorato all’estero ci siamo resi conto del privilegio che abbiamo in Italia, della varietà di tecniche che esistono e della loro storia. Tutte tecniche perfezionate nel tempo, che richiedono un saper fare maturato nel corso di secoli. Quanto a Venezia, abbiamo iniziato lì la nostra ricerca perché è il territorio da cui proveniamo, ed è un territorio ricchissimo. Ancora adesso, nonostante qualche progetto geograficamente si allontani, torniamo lì.

Quali sono i vostri presupposti progettuali?

GZ: La volontà di raccontare una storia attraverso le tecniche artigianali di un territorio, rendendole contemporanee.

DB: Raccontiamo soprattutto come il tempo ha segnato i luoghi: da Acqua Alta in poi c’è sempre l’idea delle tracce sovrapposte, degli strati, dei livelli. Per esempio il tema della sfumatura è molto importante per noi: nasce dai segni che l’acqua alta lascia sugli intonaci veneziani. E dunque la sfumatura lasciata dal tempo, la reazione delle tecniche sulla superficie dell’oggetto, per noi sono sempre più di una riproposizione puramente estetica e grafica, sono un segno distintivo del nostro lavoro.

I vostri progetti vanno dalla piccola scala all’elemento d’arredo: il metodo progettuale cambia da uno all’altro?

GZ: No, è identico. Il risultato non dipende dalla scala, ma piuttosto dalla richiesta del cliente. Ci sono progetti dove la ricerca prende più spazio e altri dove ne prende meno. DB: Per alcuni progetti devi rispondere a delle richieste commerciali e funzionali, a degli standard di prodotto. Ma anche in quel caso a noi non basta lavorare sulla forma, lavoriamo sempre molto sui materiali, valutiamo sempre la possibilità di collaborare con degli artigiani locali che magari si rifanno a tecniche di qualche secolo fa. Ci piace lavorare con realtà aziendali che hanno la misura giusta per lanciarsi in sfide progettuali.

Lavorate con tante tecniche diverse, per padroneggiare le quali, come dicevate prima, ci vuole spesso molto tempo. Come si svolge nel concreto questa ricerca, è autonoma o vi appoggiate sulla conoscenza degli artigiani?

GZ: Il bello del nostro lavoro è continuare a imparare: è molto stimolante quando un progetto ti arricchisce anche personalmente, a livello di conoscenza. Quando incontriamo una tecnica che non conosciamo ne siamo incuriositi, ci viene naturale esplorarla, andare a fondo. Ci capita, banalmente, di passare davanti a botteghe e officine artigianali, e di entrare per sapere chi sono e cosa fanno.

È andata così anche con lo smalto su rame?

DB: Dello smalto su rame ci siamo innamorati nel 2017, lavorando insieme a una collezionista che aveva dei pezzi di smalto su rame fatti da Paolo De Poli insieme a Gio Ponti. La storia di quei pezzi ci ha molto colpito e abbiamo iniziato a fare ricerca, a chiederci perché non ci fosse più traccia di questa tecnica, se non in piccole produzioni artigianali perlopiù legate al mondo dell’oreficeria. La lezione di De Poli e degli altri smaltatori degli anni Sessanta era scomparsa.

GZ: Abbiamo iniziato a cercare qualcuno che usasse ancora questa tecnica, in Italia e all’estero. Ma chi lo fa, a livello di hobbistica o nel settore della gioielleria, usa forni molto piccoli, e noi volevamo lavorare su oggetti più grandi. Quello con Incalmi è stato un incontro fortunato.

DB: Una bellissima coincidenza. Li abbiamo conosciuti per caso, ci hanno invitati a visitare il laboratorio e abbiamo iniziato a lavorare insieme. Di solito un’azienda ti contatta perché vuole fare un prodotto da mettere a catalogo, avere un riscontro commerciale. Incalmi invece voleva prima di tutto fare ricerca. Abbiamo iniziato con Play with fire, con l’idea di sperimentare sul colore. Incalmi ci ha messo a disposizione la sua conoscenza, traducendo via via le nostre idee in formule chimiche che tenevano conto della temperatura e del tempo. Questo ci ha permesso di sperimentare la complessità di questa tecnica. Personalmente è il lavoro più entusiasmante che ho fatto finora. Ogni volta vedere il risultato è magico.

GZ: Ci hanno sempre coinvolti, è davvero un lavoro a quattro mani. Spesso con le aziende ti limiti a dare delle direttive, ma non sei presente durante la produzione.
Com’è nato poi il progetto Specola?

DB: Siamo stati invitati a Doppia Firma [il progetto di Fondazione Cologni che fa dialogare designer e maestri artigiani N.d.R.] e abbiamo proposto di lavorare con Incalmi. Abbiamo quindi tradotto la ricerca cromatica che stavamo conducendo nel progetto Play with fire nelle lampade Specola, che abbiamo chiamato così in omaggio a Padova, la città di De Poli, e anche perché hanno un’immagine un po’ galattica.

GZ: Volevamo legare la nostra ricerca all’idea della luce. Lo smalto su rame cambia molto in base alla luce, la superficie è molto riflettente e il colore varia in base a come la muovi, quindi la lampada ci sembrava l’oggetto più sensato da cui iniziare.

Poi la collezione è arrivata a includere altri oggetti.

GZ: Abbiamo continuato a esplorare la forma tonda perché volevamo portare avanti una ricerca sulla sfumatura concentrica.

DB: A ottobre abbiamo presentato a EDIT Napoli piatti, maniglie e appendiabiti, oltre a tutta la nostra ricerca cromatica.

Quali evoluzioni immaginate?

GZ: Stiamo lavorando a sfumature lineari e forme diverse. Ma questa lunga ricerca sulla forma tonda ci è servita perché spesso quello che facciamo, se non viene esplorato a sufficienza, sparisce velocemente, non viene capito fino in fondo. Sullo smalto su rame vorremmo insistere un po’ di più, andando a fondo, lentamente. E poi vorremmo sperimentare con dimensioni maggiori, arrivare al metro di diametro. Credo che il piatto più grande mai fatto finora, quello di De Poli per la Biennale di Venezia, misurasse 60 cm di diametro: superare questa misura ci permetterebbe di fare qualcosa di cui ancora non abbiamo trovato traccia. Se mai ci riusciremo, perché la tecnica è davvero complessa.

Il progetto ha avuto un’ottima accoglienza nel mondo del design: ve lo aspettavate?

DB: È come se le persone non avessero mai visto una tecnica che invece ha migliaia di anni – tralasciando De Poli negli anni Sessanta, esiste un libro che parla di smalti che venivano prodotti secoli fa, e venivano proprio chiamati “veneziani”. Ma è scomparsa a tal punto che le persone l’hanno trovata nuova. Abbiamo inviato la nostra ricerca Play with fire a una serie di persone che immaginavamo potessero apprezzarla, e tra queste Patrizia Moroso, che si è subito entusiasmata e con cui stiamo lavorando.

GZ: È una tecnica che affascina perché è una continua scoperta, ogni volta è una sorpresa.
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