Quali sono i vostri presupposti progettuali? GZ: La volontà di raccontare una storia attraverso le tecniche artigianali di un territorio, rendendole contemporanee.
DB: Raccontiamo soprattutto come il tempo ha segnato i luoghi: da Acqua Alta in poi c’è sempre l’idea delle tracce sovrapposte, degli strati, dei livelli. Per esempio il tema della sfumatura è molto importante per noi: nasce dai segni che l’acqua alta lascia sugli intonaci veneziani. E dunque la sfumatura lasciata dal tempo, la reazione delle tecniche sulla superficie dell’oggetto, per noi sono sempre più di una riproposizione puramente estetica e grafica, sono un segno distintivo del nostro lavoro.
I vostri progetti vanno dalla piccola scala all’elemento d’arredo: il metodo progettuale cambia da uno all’altro? GZ: No, è identico. Il risultato non dipende dalla scala, ma piuttosto dalla richiesta del cliente. Ci sono progetti dove la ricerca prende più spazio e altri dove ne prende meno. DB: Per alcuni progetti devi rispondere a delle richieste commerciali e funzionali, a degli standard di prodotto. Ma anche in quel caso a noi non basta lavorare sulla forma, lavoriamo sempre molto sui materiali, valutiamo sempre la possibilità di collaborare con degli artigiani locali che magari si rifanno a tecniche di qualche secolo fa. Ci piace lavorare con realtà aziendali che hanno la misura giusta per lanciarsi in sfide progettuali.
Lavorate con tante tecniche diverse, per padroneggiare le quali, come dicevate prima, ci vuole spesso molto tempo. Come si svolge nel concreto questa ricerca, è autonoma o vi appoggiate sulla conoscenza degli artigiani? GZ: Il bello del nostro lavoro è continuare a imparare: è molto stimolante quando un progetto ti arricchisce anche personalmente, a livello di conoscenza. Quando incontriamo una tecnica che non conosciamo ne siamo incuriositi, ci viene naturale esplorarla, andare a fondo. Ci capita, banalmente, di passare davanti a botteghe e officine artigianali, e di entrare per sapere chi sono e cosa fanno.
È andata così anche con lo smalto su rame?DB: Dello smalto su rame ci siamo innamorati nel 2017, lavorando insieme a una collezionista che aveva dei pezzi di smalto su rame fatti da Paolo De Poli insieme a
Gio Ponti. La storia di quei pezzi ci ha molto colpito e abbiamo iniziato a fare ricerca, a chiederci perché non ci fosse più traccia di questa tecnica, se non in piccole produzioni artigianali perlopiù legate al mondo dell’oreficeria. La lezione di De Poli e degli altri smaltatori degli anni Sessanta era scomparsa.
GZ: Abbiamo iniziato a cercare qualcuno che usasse ancora questa tecnica, in Italia e all’estero. Ma chi lo fa, a livello di hobbistica o nel settore della gioielleria, usa forni molto piccoli, e noi volevamo lavorare su oggetti più grandi. Quello con Incalmi è stato un incontro fortunato.
DB: Una bellissima coincidenza. Li abbiamo conosciuti per caso, ci hanno invitati a visitare il laboratorio e abbiamo iniziato a lavorare insieme. Di solito un’azienda ti contatta perché vuole fare un prodotto da mettere a catalogo, avere un riscontro commerciale. Incalmi invece voleva prima di tutto fare ricerca. Abbiamo iniziato con Play with fire, con l’idea di sperimentare sul colore. Incalmi ci ha messo a disposizione la sua conoscenza, traducendo via via le nostre idee in formule chimiche che tenevano conto della temperatura e del tempo. Questo ci ha permesso di sperimentare la complessità di questa tecnica. Personalmente è il lavoro più entusiasmante che ho fatto finora. Ogni volta vedere il risultato è magico.
GZ: Ci hanno sempre coinvolti, è davvero un lavoro a quattro mani. Spesso con le aziende ti limiti a dare delle direttive, ma non sei presente durante la produzione.