Sei una curatrice indipendente, un’advisor e la direttrice della rivista The Good Life Italia. Che cosa unisce queste tre attività?
La curiosità, che mi ha sempre portata a interessarmi a cose molto diverse, e che adesso, soprattutto con
The Good Life Italia, mi sta aprendo a nuovi mondi e nuove conoscenze. Tutte e tre le attività poi si basano su un lavoro che ha al centro i contenuti: che siano i contenuti di una mostra o la consulenza a un designer, tu dall’esterno tracci una linea di quelle che potrebbero essere le evoluzioni future. E infine la creatività, che è l’ambito in cui tutte e tre queste cose si muovono.
E cos’è invece a differenziarle? Immagino che tra un’istituzione culturale e un’azienda possano esistere divergenze a livello di obiettivi: diresti che il tuo lavoro cambia nell’interfacciarsi con l’una o con l’altra?
Certo, il lavoro cambia sempre. Se curi una mostra per un’istituzione pubblica statale devi pensare a quello che in Francia chiamano large public, quindi a un prodotto culturale divulgativo con un forte impianto pedagogico che permetta di far capire a un pubblico più ampio possibile il soggetto della mostra, che sia dedicata a un singolo designer o a un movimento. Serve una capacità narrativa diversa, che tenga insieme addetti ai lavori e non. I progetti per le aziende invece possono essere di vario tipo: culturali, di comunicazione oppure commerciali, e questo ovviamente cambia completamente l’approccio. Faccio un esempio. Qualche anno fa ho avviato una collaborazione con Buccellati, un brand storico della gioielleria che voleva affacciarsi al mondo del design attraverso gli oggetti per la tavola, che loro producevano da anni. La mia proposta è stata far lavorare quattro interior designer con le collezioni esistenti, con l’obiettivo di mostrare come quegli oggetti, che richiamavano un milieu da antica nobiltà, potessero invece essere molto contemporanei se usati in modo completamente diverso. Questo ha portato poi a una razionalizzazione dei loro cataloghi commerciali. La parte commerciale rimane molto importante nel design, perché il design ha una diretta finalità commerciale a differenza dell’arte, che magari è più scevra dal legame con il mercato.
In quale di questi due mondi ti senti più libera?
Dipende da progetto a progetto e da azienda ad azienda. Anzi, dipende dalle persone. Puoi essere estremamente libero in un’azienda come in un’istituzione, se i tuoi interlocutori sono delle persone con cui hai un dialogo, un’affinità. Invece non c’è mai libertà quando il tuo interlocutore non ha una reale apertura mentale, o è molto dogmatico. Ovviamente dei paletti ci sono sempre, però sono sempre le persone che fanno la differenza. Finora, i lavori che sono andati bene, che sono stati una gioia e magari poi hanno generato altre cose, sono sempre stati legati a un ottimo rapporto con le persone che c’erano, alla sintonia che si è creata tra me e il team dell’azienda o della realtà istituzionale, di qualsiasi dimensione fosse.